Nella “Norma” maceratese spicca la Theodossiou


Alberto Bazzano

10 Ago 2007 - Commenti classica

Macerata – Alla fine dello spettacolo qualche isolata contestazione, mimetizzata fra gli applausi, è stata mossa a Massimo Gasparon: probabilmente per quelle svastiche esibite, per quelle croci uncinate che emergevano un po' ovunque. Sul fondo della scena, sui mantelli dei Galli-Tibetani. Talora orientate in senso orario, talora in senso antiorario.
L'intenzione del regista di proiettare la vicenda su di un fondo ancestrale che consentisse il recupero dei significati positivi legati a certa simbologia antica in sanscrito il termine svastica, ricorda Gasparon nel saggio accluso al programma di sala, significa apportatore di salute' non ha colpito nel segno. Prevedibilmente! Troppo viva è ancora nel pubblico la memoria dei tragici eventi che sconvolsero il corso del Novecento e dei quali la svastica costituisce un lugubre e potentissimo richiamo. Svastica, oggi, significa morte, non vita, e ci vorrà tempo, molto tempo, perchè un altro significato si affacci all'orizzonte.
Attraverso i simboli Gasparon getta un ponte sull'Oriente, tende la mano al buddismo tantrico, così simile a suo dire – negli orientamenti e nelle credenze alla cultura dei Celti. Nasce, da questo gioco di intrecci, di richiami e di rimandi, un nuovo prodotto. Le venerate querce diventano, per esempio, le colonne lungo le quali si snoda l'azione e l'impianto visivo assume, pertanto, una austerità neoclassica, non estranea, in verità , allo spirito della vicenda.
Fra gli interpreti spicca Dimitra Theodossiou nei panni di Norma. La sua linea è pregevole, fatta di sottili ricami, di cesellature, di suoni smorzati sino al soffio. Una linea, insomma, che ben si sposa alla lunarità implicita nel personaggio della sacerdotessa. Quando il canto richiede forza, impeto, slancio, la Theodossiou risponde a dovere, palesando una vocalità ricca, ambrata, doviziosa. Il tallone d'Achille del soprano restano gli estremi acuti, a volte eccessivamente taglienti, a volte vetrosi.
Daniela Barcellona, Adalgisa, è una grande cantante, dotatissima nello strumento mezzosopranile. In lei i potenti mezzi, così generosamente dispensati dalla natura, trovano adeguata correlazione in un fraseggio lodevole, preparato e approfondito nel tempo alla scuola belcantistica di Rossini. Adalgisa, si sa, non è ruolo per lei. Ma non importa: il personaggio, alla fine, esce grazie all'accurata vocalizzazione e alla cura del dettaglio.
Un buon risultato ottiene anche Simon Orfila, Oroveso dal timbro pastoso e dalla fonazione corretta.
Il livello scende di molto con il Pollione di Carlo Ventre. La voce del tenore uruguayano è robusta ma il canto appare appannato, monocorde e totalmente privo di intenzioni. A metà di Meco all'altar di Venere esibisce un tenuto Do4, a dimostrazione che gli acuti non sono un problema. Va bene! Non tutto però può risolversi in atletismo vocale.
Completano la locandina la discreta Clotilde di Roberta Minnucci e l'ottimo Flavio di Giancarlo Pavan.
Sufficiente la prova dell'orchestra guidata da Paolo Arrivabeni. Il giudizio, confinato nei termini di una anonima correttezza, è dovuto a quella carenza di illuminazioni interpretative, sempre necessarie per il salto di qualità .
(Alberto Bazzano)


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