“Metafisica di un sisma”. Un racconto fotografico di Saverio Salvemini
di Alberto Pellegrino
31 Mag 2018 - Altre Arti, Eventi e..., Arti Visive
Saverio Salvemini ha raccontato nel volume fotografico Metafisica di un sisma il dramma dei borghi e dei paesi dell’Alto Maceratese, duramente colpiti dal terremoto, un evento che riguarda tutti, perché il sisma, al pari della guerra, non rispetta nulla e nessuno, lasciando dietro di sé una scia di distruzione e di dolore. Il presente e il futuro sono improvvisamente crollati per quanti sono stati costretti a lasciare le case lesionate o distrutte, i luoghi dove erano custodite le memorie di una vita, senza sapere quando e come potranno farvi ritorno. Ogni individuo si è sentito improvvisamente messo a nudo, si è trovato psicologicamente dissociato a causa di un evento che aggredisce senza alcun preavviso ed è in grado di sconvolgere la vita quotidiana, di distruggere storie, ricordi ed emozioni personali. Gli uomini e le donne, che hanno vissuto la sindrome del sisma, sono stati costretti a interrogarsi se sarà possibile trovare la forza necessaria in quegli antichi valori, dove affondano le radici della speranza, perché il dolore, con il passare del tempo, diventerà meno tenace e, senza cancellare i ricordi, potrà lasciare il posto a nuovi scopi da perseguire, a nuovi sogni da coltivare.
Saverio Salvemini, musicista di professione, ha scoperto la fotografia come uno strumento capace di narrare delle storie e ha voluto “raccontare” il sisma secondo una cifra espressiva del tutto originale, rifuggendo da qualsiasi forma di realismo per cercare di tradurre in immagini i turbamenti dell’anima, anche quelli più intimi e segreti, provocati da un evento così altamente drammatico. L’autore, rifuggendo da ogni forma di sensazionalità e di emotività, è entrato nel mondo del terremoto in punta di piedi, come il testimone discreto e rispettoso di un tempo ormai frantumato, di luoghi che sono ormai diventati dei non-luoghi, di una natura che sembra assistere indifferente a questa tragedia umana. Salvemini impiega la sua sensibilità e le sue capacità tecniche per catturare le ultime tracce di una memoria destinata a scomparire o a subire nel tempo trasformazioni profonde, cercando di cristallizzare alcuni frammenti di una realtà destrutturata per trovare in essi un’unità narrativa che possa assicurare un momento di eternità.
Salvemini, quando ha avvertito che, per nutrire il suo mondo interiore, le note musicali avevano bisogno di un supporto visivo, ha cercato nelle immagini un mezzo idoneo per raccontare degli avvenimenti, per esprimere dei sentimenti, per creare una connessione diretta tra il mondo esteriore e il mondo interiore. Ha costruito allora delle fotografie capaci di contenere al loro interno quelle armonie, quei ritmi, quelle assonanze e dissonanze che sa cogliere l’orecchio assoluto di un musicista. La metafisica è diventata una chiave di lettura per rifiutare ogni forma di realismo e di cedimento alla retorica, per confrontarsi e immergersi in una drammatica realtà con lo scopo di interpretarla secondo una propria visione e secondo un particolare uso del linguaggio fotografico.
Ha avuto così inizio un viaggio dentro luoghi che un tempo erano vivi e ricchi di suoni, mentre ora sono assoggettati a un silenzio senza interruzioni e, per riempire e dare un significato a questo silenzio, Salvemini ha impiegato in modo rigoroso il bianco e nero, perché le sue immagini non avrebbero sopportato la fastosa ricchezza cromatica del colore, il quale avrebbe finito per attenuare o addirittura spegnere l’urgenza e la “necessità” di rappresentare una tragedia andata in scena sul grande palcoscenico della natura.
Nel guardare le sue immagini non si troveranno le sontuose dimore dei ricchi, ma le case che sono state un rifugio sicuro per migliaia di persone, che sono rimaste un luogo dell’anima, dove sono nati e cresciuti tanti esseri umani, dove si è vissuti in comunione con altri, dove le persone si sono amate, dove sono trascorsi momenti felici o meno felici. La rappresentazione di questi ruderi rimane impressa nella nostra mente, perché sono spazi ancora affollati di ricordi e di oggetti che rappresentano una vita intera: case che si fronteggiano, che s’illuminano a vicenda, che creano delle emozioni e contemporaneamente suggeriscono una riflessione, perché, per una loro magia visiva, ci spingono a entrare al loro interno per cercare di penetrare nei pensieri di coloro che vi hanno vissuto. Così questi fantasmi diventano nostri e ci ricordano che tutti abbiamo bisogno di un rifugio, di un luogo dove collocare i nostri sentimenti e i nostri pensieri, dove trovare la forza di andare avanti e riscoprire le ragioni di una rinnovata speranza. Quando quelle case saranno ricostruite, torneranno a essere per tutti un luogo da rigenerare insieme alle strade e alle piazze, luoghi dove sono risuonati i passi di un recente passato, dove riprenderà a scorrere la vita e si ritornerà in modo responsabile e civile a riappropriarsi di ogni pietra di quelle strade e di quelle piazze, si ritornerà a essere una comunità.
Nelle fotografie di Saverio Salvemini, per una precisa scelta narrativa, non compaiono mai esseri viventi, eppure in ogni immagine si trovano i segni di una presenza umana quanto mai pregnante, perché si avverte che in quei luoghi, fino a pochi secondi prima del sisma, viveva una collettività che aveva accettato, anzi scelto, di condurre un’esistenza non certo facile, ma pur sempre appagante, fra i monti e le colline dell’entroterra marchigiano. Fra tanti cumuli di rovine, fra i ruderi e le travature, lungo le strade ora si aggirano come dei fantasmi, in una sorta di presenza-assenza, i protagonisti di un dramma che ha cambiato di colpo abitudini e condizioni di vita; ha dissolto le speranze dei più giovani e ha reso più amari i restanti anni degli anziani sradicati dal loro habitat naturale; ha distrutto un piccolo patrimonio frutto di anni di duro lavoro e divenuto lo scrigno di tante memorie familiari; ha spazzato via i luoghi di culto e di preghiera.
In contrasto con la “dissoluzione” del tessuto urbano, il paesaggio ha mantenuto la sua intatta bellezza con il profilo dei Monti Azzurri, con le cime innevate, con il movimento ondoso e dolce delle colline che sembra cullare i campi punteggiati di alberi. Tutto appare tranquillo e sereno così com’è stato disegnato da secoli di storia, ma basta girare pagina per vedere i segni di forze sotterranee che, nel loro scatenarsi, provocano distruzione e dolore. Ecco allora apparire le chiese diroccate, le antiche fornaci demolite, i fantasmi di case abbandonate, le strade percorse da un innaturale silenzio, dove gli unici abitanti sono i cumuli di pietre, i tralicci di ferro contorti, le travi ormai segnate da un loro inutile destino, le porte e le finestre sigillate a nascondere il vuoto di luoghi ormai deserti, i muri incatenati o serrati in gabbie di legno, mentre sullo sfondo si stagliano il profilo dei monti e il tessuto sereno dei campi. Profonde ferite squarciano i muri come corpi vivi per intrecciare muti dialoghi con alberi decisi a scagliare i loro rami spogli verso un cielo che incombe con la sua indifferente serenità; inutili porte si aprono sul vuoto e restano spalancate dinanzi a un fiume di macerie che scorre verso la valle.
L’autore si addentra all’interno del paesaggio urbano per toccare con mano le effimere fondamenta di un mondo di pietra che sembrava destinato a sfidare il tempo: dinanzi agli occhi si apre uno scenario con quinte di muri screpolati appoggiate su un relitto di paesaggio ormai lontano, con porte serrate e finestre come occhi spalancati sul buio a dominare una scena ormai vuota. Lungo pareti di pietra, scavate dalla luce e percorse da squarci impietosi, continuano a scorrere strade e scalinate, dove cumuli di macerie occupano uno spazio silenzioso che in un altro tempo risuonava di passi e di voci. Le chiese aprono i loro portoni sul vuoto di una sacralità violata in un silenzio che ha vinto ogni umana pietà. Tra le pareti ferite i portoni spalancati sembrano attendere il suono di passi che mai più varcheranno quelle soglie, mentre altre porte rimangono serrate tra le rovine e gli archi che portano le tracce di un’antica gloria.
Nella fotografia di Salvemini un ruolo importante gioca la luce che crea isole di colore sull’intonaco ferito, contorna gli oggetti e i segni abbandonati dall’uomo. L‘autore penetra con pudore nell’intimità di questi-non luoghi, avverte quasi il timore di violare il segreto di un dolore destinato a non rimarginarsi. Il silenzio è calato sui volti di pietra, sulla penombra di appannate specchiere, tra le ombre di vetrate che traguardano su abbandonati giardini, sopra i portoni spalancati sul dramma d’interni devastati e resi ancora più drammatici dalla luce che incombe. Il silenzio penetra nei luoghi del sacro, tra grovigli di travi sui quali piove una pallida luce; il silenzio avvolge gli stessi santi che sono diventati ombre abbandonate in spazi che non risuonano più di preghiere e di canti. Un tempo ormai sospeso incombe sulle facciate delle abitazioni e delle chiese, dove persino le Madonne e i Santi superstiti, con i loro volti affrescati sulle pareti squarciate, guardano increduli e smarriti i segni di una rovina appena alleviata da improvvisi e timidi tagli di luce.
A conclusione del suo percorso narrativo, Salvemini cerca di penetrare ancora più in profondità nelle tracce di un vissuto ormai lontano, in modo da rendere più leggibili queste pagine di pietra sulle quali è tracciata una particolare tragedia: la luce disegna assurde geometrie; reticoli metallici imprigionano facciate e portoni di antichi palazzi; piccole e buie feritoie si aprono sui muri segnati da squarci profondi; ombre di rami si proiettano sopra queste ferite quasi a voler alleviare un dolore ormai antico. Per lasciare spazio a un tenue ottimismo, nell’ultima immagine un cumulo di macerie, segnato da un gioco di luci e di ombre, vuole trasmettere un messaggio di speranza, tenace come le radici di un albero che si erge maestoso quasi a sfidare un cielo dove, tra le nubi, si può intravvedere un po’ di sereno.