200 anni di “Adina” che “illumina” il ROF


di Andrea Zepponi

23 Ago 2018 - Commenti classica, Musica classica

Adina è un’opera musicalmente perfetta. Denominata “farsa semiseria”, è l’ultima opera di Gioachino Rossini come operista comico italiano. Anche qui un mistero: fu composta nel 1818 – altro bicentenario con Ricciardo e Zoraide – per il Teatro São Carlos di Lisbona, ma in quel teatro non andò in scena che solo otto anni dopo, nel 1826. Sconosciuti i motivi, sennonché dall’analisi dei numeri musicali di questa operina (dura poco più di un’ora), che è diversa dalle cinque farse veneziane composte dal 1810 al 1812, risulta che si tratta di un capolavoro di sintesi, una summa del genere farsesco rossiniano in cui confluiscono elementi affettuosi e di mezzo carattere. Ma il miracolo più grande si riscontra nell’organicità musicale del lavoro, scritto in collaborazione di un misterioso aiutante (il “Collaboratore” come lo chiama Paolo Gallarati), di cui non si conosce l’identità, ma che, nel complesso, ha aderito così bene allo stile e allo spirito rossiniani da far pensare a un progetto organico nella mente creatrice di Rossini che coinvolge e ingloba anche le imitazioni, pur tecnicamente pregevoli, del suo Collaboratore. Anzi si nota come il marchio rossiniano si imponga in contrasto dialettico con l’impronta estranea del suo aiutante e la rende funzionale alla propria essenza drammaturgica in cui l’imprevedibilità comica, ludica o drammatica scaturisce proprio per contrasto dalla convenzionalità di certi brani e di certi stilemi, cosa che avrà molta fortuna futura nel melodramma dell’800. Fatto sta che la peculiarità di Adina è proprio questa alternanza di momenti briosi e momenti “affettuosi” dovuti al mezzo carattere con tutti i suoi dispositivi teatrali: il larmoyant e il sauvetage. La complessità di questa concezione è stata espressa in modo pertinente, chiaro e oltremodo piacevole dalla regia di Rosetta Cucchi e dalle scene di Tiziano Santi per Adina di Gioachino Rossini cui ho assistito la sera del 15 agosto 2018 al Teatro Rossini di Pesaro, che presentava un’enorme torta nuziale dalla struttura abitabile nei suoi tre ripiani praticabili come metafora di una forma in fieri – diversi cuochi facevano le viste di rimboccare di continuo con creme e panna la chiusura dei pannelli della gran torta che venivano aperti e richiusi per introdurre varie scene dei personaggi all’interno – di cui tuttavia era ben evidente l’aspetto finale; i colori brillanti e appetitosi come nel remake del film La fabbrica del cioccolato ed i suoi pupazzi semoventi, le sue suppellettili commestibili davano conto del carattere ludico dell’operina e la verticalità della scenografia aveva una sua funzione diegetica a partire dal primo ripiano (il passato), destinato all’appartamento del Califfo di Baghdad, da cui si intravede la vasca da bagno dove si immerge mentre racconta ad Alì i suoi trascorsi amorosi, poi il secondo (il presente), che funge da alloggio per la bella schiava Adina attorniata dalle sue compagne, spiritose cameriere di pasticceria, e l’ultimo (il futuro), sormontato da una coppia di figuranti le statuine di zucchero degli sposi immancabili sulla vetta delle torte nuziali, usato anche come prigione per Selimo condannato a morte dal Califfo che scopre e sventa il tentativo di fuga di Adina con il giovane arabo. Una disposizione della scena direi cartomantica quasi come quella che, secondo la regia cucchiana, usa Adina nel leggere i tarocchi alle amiche. Alcuni tratti polisemici potevano essere individuati nella vetta della torta prigione = matrimonio, nella tirata  misogina di Alì che intanto si compiace di travestirsi da donna (si insinua un tentativo di seduzione nei confronti del Califfo!?), nell’ambiguità di elemento euforico/disforico presente nella trama dove l’apparente amenità dei rapporti può nascondere il baratro della condanna a morte e l’orrore dell’incesto sventato dall’agnizione finale in cui il Califfo si riconosce padre di Adina e benedice pertanto l’unione della ragazza con l’amato Selimo, il tutto nel solco di uno schema teatrale di ascendenza classica che affida alla imperscrutabile azione della tyche il rovesciamento della sfiorata tragedia nel finale lieto. E non dimentichiamo che per la musica di Rossini, la quale vive di astrattezza e di ragioni intrinseche, tragico e comico sono spesso facce della stessa medaglia. Gli stessi multicolori mitra giocattolo branditi dal manipolo di guardie del Califfo stavano a ricordare che la vita è teatro e il teatro è un gioco che si rovescia in un dramma bifronte espresso più dalla musica che dalle parole. Policromia anche nei costumi di Claudia Pernigotti, che decide di seguire l’ambivalenza temporale del film suddetto con costumi allusivi ad un 900 venato di nostalgie ottocentesche con un tocco di atmosfera circense, complici le luci frastagliate ed errabonde di Daniele Naldi. Per venire agli interpreti, tutti visibilmente ben preparati dal cesello registico, il soprano Lisette Oropesa nel title rôle è perfetta nella coloratura spericolata e vezzosa ma senza manierismi di fraseggio, con uno straordinario volume vocale che le permette di giocare dinamicamente nel registro acuto sulle agilità in un dialogo ludico con l’orchestra: l’aria di sortita Fragolette fortunate non poteva essere meglio cantata e così gli irresistibili duetti con basso, tenore e le scene di insieme in cui lei si afferma assoluta primadonna. Tanto che il tenore Levy Segkapane in Selimo, seppure ben impostato vocalmente e scenicamente, al confronto con la Oropesa rimaneva su un piano sonoro secondario, ma poi “bucava” il proscenio con acuti spigliati (che sanno ancora un po’ di vagito) e lo accarezzava con la disarmante morbidezza del colore timbrico nell’aria del notturno S’alza la notte … Giusto ciel, che i dubbi miei. Quanto al basse-baritone Vito Priante in Califo, colpisce il tratto attoriale elegante e misurato del portamento scenico, il vigore vocale del timbro spiccato e sensibile in ogni sua apparizione, dal brano di sortita con coro e pertichini Qual nei vaghi ed eterni giardini, alla possente aria D’intorno il serraglio. Ottime anche le parti di contorno: il basse-baritone Davide Giangregorio in Mustafà, e soprattutto il tenore Matteo Macchioni nel ruolo di Alì che si dimostrano molto più che caratteristi per qualità vocali e sceniche. Il Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini di Fano diretto dal M. Mirca Rosciani, impegnato in primo piano come personaggio singolo onnipresente nell’opera, ha brillato per valori espressivi e stilistici fin dall’incipit Splende sereno e fulgido; ad assecondare il tutto la duttile ma rigorosa bacchetta del M. Diego Matheuz, sul podio dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini valida come sempre per trasparenza timbrica e malleabilità di fraseggio.
Il forte successo ottenuto a Pesaro da questo allestimento in coproduzione con il Wexford Festival Opera non fa che rilanciare la creatività italiana osservante di una logica intrinseca al melodramma ed ai suoi valori musicali.

ADINA
TEATRO ROSSINI
12, 15 e 21 agosto, ore 20.00; 18 agosto, ore 16.00
Farsa in un atto di Gherardo Bevilacqua Aldobrandini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Fabrizio Della Seta

Direttore DIEGO MATHEUZ
Regia ROSETTA CUCCHI
Scene TIZIANO SANTI
Costumi CLAUDIA PERNIGOTTI
Luci DANIELE NALDI

INTERPRETI
Califo VITO PRIANTE
Adina LISETTE OROPESA
Selimo LEVY SEKGAPANE
Alì MATTEO MACCHIONI
Mustafà DAVIDE GIANGREGORIO

CORO DEL TEATRO DELLA FORTUNA M. AGOSTINI
Maestro del Coro MIRCA ROSCIANI
ORCHESTRA SINFONICA G. ROSSINI
Nuova coproduzione con Wexford Festival Opera

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